Prima delle partite in casa, ci si trovava al solito bar per fare colazione insieme.
In 7 o 8. Circa quelli della mischia, più o meno. Che, infatti, notoriamente sono i più soggetti agli stenti alimentari.
Quella mattina il bar era inspiegabilmente chiuso, e stavamo lì a guardarci nelle ballotte degli occhi, senza saperci decidere.
Poi è capitata una di quelle cose, nella vita, che quando le racconti sembrano finte: e invece sono vere, perché ce le hai davanti agli occhi!
Lui si è presentato dopo una levataccia all’alba: perché lavorava anche nel fine settimana. Senza orari. Al momento del bisogno. In quella mattina precisa, si era rotto l’impianto idraulico della porcilaia.
Ora: ci si può immaginare il motivo per cui un’orda di maiali non possa assolutamente rimanere senz’acqua per troppo tempo. Ma non si può immaginare come si presenti un essere umano, dopo aver lavorato per ore e ore in una porcilaia che non funziona.
Lui era più che sporco: era inguardabile. E, soprattutto, non si poteva annusare. In confronto, noi, con addosso la modesta tuta della squadra, eravamo eleganti come damerini e profumati come neonati.
In realtà, non pareva farci caso più di tanto: era molto più preoccupato dalla chiusura del bar.
Si fermò perplesso, grattandosi porzioni del corpo lontane dalle parti pensanti, e ci disse: “Andiamo al…”
Occhi sgranati della squadra. Era il club più esclusivo della zona.
Quello che non sogneresti mai di frequentare, se non dopo un’insperata vincita al Superenalotto.
Ci accodammo, comunque, curiosi di capire dove sarebbe finito lo scherzo.
E ci andò veramente, al club. Scese dalla macchina portandosi dietro un effluvio potentissimo di letame, e suonò al citofono. Tutti pensammo, all’unisono: “Ecco, ora ci sbattono tutti fuori!”.
Lui, impassibile, pronunciò distintamente le sue generalità.
E dall’altra parte dell’apparecchio: “CHIIII??”.
Non si scompose più di tanto. Ripeté le generalità, aggiunse un bestemmione molte eloquente, e spiegò: “Sono l’idraulico. Possibile che vi ricordiate di me solo quando avete bisogno?”.
Le porte del paradiso del club si aprirono immediatamente, senza una parola in più dall’altra parte del citofono.
Noi avanzavamo timorosi, tra i tavoli di merletti fini e porcellane delicatissime. Un cameriere discreto come un’ombra ci chiese cosa desideriamo ordinare. E il nostro anfitrione, col piglio del padrone di casa: “Beh, te intanto comincia a portare della roba!”.
Abbiamo mangiato come una torma di barbari tenuti a digiuno per una settimana, sprezzanti del fatto che di lì a poco avremmo dovuto giocare una partita. Tra gli sguardi scandalizzati delle signorine perbene, e le fauci strozzate dei loro cavalieri serventi.
Quando si è trattato di pagare, il nostro odorosissimo pilone ha fatto un gesto infastidito con il manone.
Come per dire: “Lasciate perdere queste frivolezze. Loro, nei miei confronti, hanno un grande debito di gratitudine e riconoscenza. Quindi, non mi pare il caso di celiare su particolari non degni di nota. Piuttosto, concentriamo la nostra attenzione sul cimento del campo, che una partita di rugby vale ben più di un’umile colazione!”.
E così abbiamo fatto. Abbiamo giocato la nostra partita.
E molte altre partite, nelle domeniche a seguire: ma solo dopo esserci gustati il primo pasto servito e riverito nell’atmosfera ovattata del circolo dei gran signori.
Perché bisogna sempre ricordare che il rugby è uno sport da bestie giocato da gentiluomini.
Gentiluomini anche se si rotolano nel fango, o nei liquami di una porcilaia.
Anzi, SOPRATTUTTO se si rotolano nel fango, o nei liquami di una porcilaia.