Si accosta al campo con la stessa serenità d’animo che ha l’uomo in canotta che si affaccia alla finestra per urlare ai ragazzini di fare poco casino, che c’è gente che deve dormire.
Stivalazzi da pescatore.
Mani affondate nelle tasche.
Una, almeno, perché l’altra è perennemente alle prese con una sigaretta accesa, dal primo all’ultimo minuto di gioco.
Non dev’essere facile fare l’allenatore, quando hai ancora tanta voglia di giocare in corpo..
Anzi, ti sale il nervoso tutte le volte che vedi una cappella, e tu avresti invece fatto in un altro modo.
Ma in partita non si scaglia mai, contro i propri giocatori.
Una serie di contumelie lanciate a pubblico, dirigenti, guardalinee, cambusieri.. pur di non mostrarsi un tutt’uno con la propria squadra.
E’ in allenamento che saltano fuori le perle migliori.
Offese che farebbero arrossire una pietra.
Palloni scagliati a terra con la forza di una pressa da asfalto.
Rimase epocale la sfuriata, conclusa con uno slancio violentissimo dell’ovale a terra.
Ma l’ovale, si sa, è imprevedibile: il rimbalzo, infatti, gli schiacciò il naso contro il cervello, interrompendo la ‘pacifica’ comunicazione con i suoi giocatori. Non uno osò neppure sorridere, per la scena, completamente annichiliti dalla brutalità dello sfogo.
Stando alle esternazioni continue sul campo, parrebbe che l’allenatore non avesse trovato, in tutta la carriera, un solo giocatore degno di recare con sé la palla su un campo d’erba.
E invece, in un’intervista pubblica, fece commuovere tutte le ragazze che quell’anno aveva allenato (che erano state recentemente definite, con un elegante eufemismo, ‘fighe di merda’): “Il miglior rugbysta che io abbia mai allenato, in realtà, è una donna”.