In realtà, lei sul campo non ci ha mai giocato.Anzi, non ci è neppure entrata.
Ma è indiscutibile che si tratti di una pilona.
Larga ed accogliente come solo certe donne emiliane sanno essere.
Perennemente circumnavigata da un grembiule. Ma non i grembiulini carini coi pizzettini che vendono sui banchetti di souvenir: proprio i grembiulazzi spessi da salumificio, segnati dalle patacche e dalle manate sfregate per pulire i palmi in maniera sommaria.
Il momento in cui è più vicina al campo è quando è attaccata alla rete di delimitazione, fuori dalla cucina.
Emerge sporadicamente, dal vapore e dagli effluvii di cipolla, per aggrapparsi con entrambe le mani, ed urlare con quanto fiato (tanto) ha in corpo: “RAGAZZI, CORAGGIO! TUTTI ALL’ARREMBAGGIO!”.
Si fermano anche i giocatori in corsa, a quel grido primordiale e potente.
Ricorda il tuono, il rombo di una mandria di bisonti, una valanga in piena velocità: si pensa a quando chiamava i suoi figli (entrambi rugbysti) per rientrare in casa, che la cena era pronta. E quell’urlo sicuramente non lasciava spazio a ritardi o contrattazioni. Quell’urlo paralizzava il quartiere.
Ora, qui al campo, l’urlo zittisce tutta la tribuna, per quanto esagitata.
Lo sente fino all’ultimo uomo sulla panchina.
Lo sentono anche di là dal campo, quelli che abitano nelle case di fianco al parco.
Poi, così come è uscita, semplicemente rientra nella cucina.
E mette a tavola tutti quanti alla fine, giocatori, panchinari, infortunati, arbitri, e buona parte della tribuna. Della partita, magari, lei non ha visto nulla. Ha controllato il ragù che non attaccasse, le lasagne che non bruciassero, ha condito insalata, tagliato salsicce, distribuito pane e salame.
Ma la vera anima del rugby è proprio lei.
Che lavora in silenzio, testa bassa, senza la soddisfazione del calore del pubblico ed il riconoscimento del punteggio sul tabellone: lei è il terzo tempo.
E quando si parla della partita, il giorno dopo, lei è citata almeno altrettante volte del giocatore che ha segnato le mete.