La panchina del rugby è un girone infernale.
Nessuno vuole starci seduto.
Certo, può capitare che, in un momento di delirio da campo, quando la carenza di ossigeno fa brutti scherzi, o la decima mischia consecutiva fa apparire San Pietro sulla traversa dei pali, qualcuno incautamente alzi lo sguardo sconsolato su quella panchina. Ma sono momenti che passano presto, in un lampo, fino all’inizio della prossima fase. Poi non ci si pensa più.
Perché è proprio una panchina, e stop.
Niente coperture contro il vento, la pioggia o le varie altre intemperie.
Proprio una panca, e neanche una capra, sotto o sopra.
Il luogo meno frequentato e frequentabile, se non per stringere tacchetti, o fasciare articolazioni.
Chi sta in panchina è un’anima in pena.
Gira come una belva intorno all’allenatore, cercando di mantenersi a disposizione con improbabili esercizi di riscaldamento, o addirittura di stretching (stretching.. va beh, facciamola semplice: cercare di riuscire a toccarsi le punte dei piedi con le punte delle mani).
Chi sta fuori dal campo, vorrebbe essere in campo.
Chi sta in campo, vuole stare in campo (salvo casi limite di dissanguamento, o causa di forza maggiore).
La panchina è una terra di nessuno, corta o lunga che sia: e neppure l’allenatore ha sempre le idee chiare su cosa fare, del materiale umano che vi transita.
Ed i dialoghi che si scambiano in quel non-luogo sono degni del teatro dell’assurdo, nel migliore dei casi.
Allenatore (rivolgendosi a Caio Pilone): “Entra, e sostituisci Pinco Pilone”
Pinco Pilone: “Guarda che non sto giocando: sono qui in panchina”;
Allenatore (rivolgendosi a Pinco Pilone): “E allora entra, così ti posso sostituire!”.