Sublime paradosso del rugby, e l’unica cosa che tutti sanno, anche se di rugby non ci capiscono una mazza. Nel rugby, la palla si passa all’indietro.
Sì, esatto.
Lo scopo del gioco è quello di guadagnare terreno per arrivare a far meta; ma per farlo devi perderne, di terreno. E passare all’indietro.
Questo è il punto in cui arriva il fenomeno che dice: ‘Ah, ma il quarterback non può fare quei bei lanci in avanti che prendono tutto il campo?’.
Ritengo che sia lecito, in questi casi giustificati, che il rugbysta metta momentaneamente da parte la sua naturale correttezza e savuarfèr, per caricare di mazzate pesanti il dispensatore di turno di cazzate immani.
Ci vuole una precisazione, in proposito: proprio perché si parla di passaggio all’indietro e leggendaria lealtà del rugbysta.
Per fare un bel passaggio all’indietro il giocatore deve avere sviluppato un’abilità che si chiama ‘vista periferica’. Cioè: devi correre, affrontare il tuo avversario con il tempo giusto, e nell’attimo esatto in cui hai la certezza che il tuo avversario è bello concentrato su di te (e lui già si sta pregustando l’impatto sonoro con il tuo apparato scheletrico), devi fotografare con la coda dell’occhio posizione, velocità, assetto, predisposizione, attitudine offensiva del tuo compagno di squadra, per passargli l’ovale ed involarlo verso il paradiso della linea di meta.
Amen.
Poi, lascia perdere che, mentre il tuo compagno si gode la gloria, te ti prendi una bordata clamorosa dall’avversario di cui sopra, e a breve ti ritrovi amabilmente avvinghiato a terra con uno sconosciuto, con la netta sensazione che il tuo GPS biologico stia ricalcolando il percorso.
Lo si fa per spirito di sacrificio. Per sostegno reciproco. Per fratellanza inscindibile con il proprio compagno di squadra.
Spesso.
Molto spesso… ma non sempre.
Può capitare (siamo esseri umani, dopo tutto) che l’avversario che si sta avvicinando a velocità smodata sia particolarmente grosso, e la necessità di approfondire l’imminente conoscenza con l’energumeno non sia poi così impellente.
E allora il colpo d’occhio all’indietro parte con una frazione di secondo prima.
Il compagno di squadra è provvidenzialmente lì, con la giusta posizione, velocità, assetto, predisposizione, attitudine offensiva. E allora anche l’ovale viene passato con un tempo leggermente anticipato, sufficiente all’avversario per deviare l’attenzione ed il peso su un nuovo bersaglio.
Così, oltre ad aver passato l’ovale, hai passato al tuo compagno anche il placcaggio. ‘Bàla e omo’, come dicono nel Nord-Est della nostra penisola. O ‘palla dell’amicizia’, come si dice dalle nostre parti.
Ops…
Ovviamente, appena dopo scatta il grave senso di colpa. Ma come? E lo spirito di sacrificio? Il sostegno reciproco? La fratellanza inscindibile con il proprio compagno di squadra? Passa anche in questo caso tutto al malcapitato, che si è preso bàla e omo. Perché lui capisce, lui sa. Nel momento stesso in cui ha visto partire la palla dalle tue mani. Ma, per una volta, ti perdona.
Come quella volta che mi avvicinai alla mia compagna di squadra, ancora rantolante per terra; io, martoriata dal rimorso, almeno cercai di farmi perdonare, offrendole la mano per aiutarla a rialzarsi.
E lei mi guardò, sospirando benevola.
Con accento inglese marcatamente biscardiano mi disse: “Dènghiu… veri veri veri friendli boll!”.
Siamo amiche tuttora.