Ad un certo punto, succede che qualcosa si spezza.
Non è il punteggio sul tabellone; che a volte può sembrare impietoso per il divario, a volte è ravvicinato come un inseguimento.
Non è un problema di fatica, di sudore, di fiato. Anzi, in partita càpita che sopraggiunga addosso una specie di anestesia, per colpa dell’adrenalina: smette di fare effetto solo tempo dopo, tra i vapori dello spogliatoio. Il corpo crolla soltanto lì sopra, sulla panchina, avvolto da un asciugamano. Spesso, lo sforzo più grande è proprio quello di alzarsi in piedi, dopo essersi accasciati su quella panchina. In campo, si va avanti comunque, anche oltre la propria soglia di sopportazione.
Ma durante il gioco arriva un momento di coscienza, una rivelazione. E da lì sai per certo che non vincerai la partita.
Può essere uno sguardo colto sul volto di un compagno, particolarmente sofferente.
Può essere la corsa dell’avversario, che trova il varco nella difesa e riesce a passare illeso, involandosi verso la linea di meta.
Può essere un placcaggio subìto particolarmente duro: la differenza la fa quel preciso istante. Se cadi a terra, e non ti viene in mente di guardare dove va il pallone, la tua partita è già finita.
Apri gli occhi, e sopra di te vedi il cielo. Senti l’umido passare tra la maglia e la schiena. Senti il rumore della lotta che si sposta da un’altra parte, più lontano.
Hai perso.
La differenza non la fa il fischio finale. Non la fa il risultato, e non la fa la classifica.
In fin dei conti, la questione si riduce semplicemente a questo: a chi sarà il primo ad arrendersi.