Metti un sabato pomeriggio a Dublino.
Pure i grandi eventi, anche se trasferiti nella cornice ufficiale delle grandi occasioni all’Aviva Stadium, conservano qualcosa di familiare. Di intimo.
Si parte intorno alle 16.00 sul trenino D.A.R.T., immortalato con le note di ‘Destination Anywhere’ delle Marvelettes in una famosa scena dei Commitments.
Arrivano famiglie, bimbi, vecchie belve da stadio e animosi vecchietti. Sciarpe azzurre o rosse, appaiate, raggruppate, o allegramente mescolate. Fuori dallo stadio, distribuiscono confettini al cioccolato del Leinster, azzurri e bianchi.
Gli addetti alla sicurezza guardano tranquillamente gli schermi disseminati in tutto l’Aviva, dove il Sudafrica e la Nuova Zelanda se le danno di santa ragione. Intanto, lì intorno, la gente chiacchiera, beve Guinness e cerca di dissimulare un certo imbarazzo: da quando l’immenso Brian O’Driscoll si è messo a fare il commentatore televisivo, e non più il secondo centro, il Leinster non sta propriamente giocando secondo i propri ritmi. Anzi.
Rebecca, una delle responsabili dell’organizzazione dei supporters del Leinster, sta ridendo a bordo campo con una sua amica: per loro, le trasferte europee più lontane, come quella del Leinster a Parma della prossima settimana, sono le preferite. Perché vengono tutti giù con l’aereo della squadra, quelli che ci stanno; e si fanno una bella gita, anche gastronomica, mentre i loro beniamini magari stanno ancora cercando di smaltire le botte della settimana prima.
Sui maxi-schermi passano i video promozionali delle squadre ‘minori’ della contea: e le immagini del rugby femminile scorrono insieme a quelle del mini-rugby, delle serie più ruspanti, degli Old. Il Leinster è una provincia irlandese, ma è anche un’organizzazione impressionante. Una vera macchina da guerra sportiva: quello che viene giocato sul campo dell’Aviva, pare veramente il risultato di una selezione che parte dalla base. Un gigantesco lavoro di squadra, ma una squadra grande come una popolazione. O quasi.
Passa il presidente del club dei supporters. E lo riconosci perché è quello che corre come un matto, con la parrucca e il volto pitturato, e urla sventolando un bandierone grande come un lenzuolo: il massimo della sobrietà e della compostezza.
C’è una famiglia in cui la mamma tifa Munster, e il figlio Leinster, e si stanno dando delle gran legnate in testa con le rispettive bandiere.
Leo the Lion, la mascotte, gira tra le prime file, e fa le foto come una vera star. Addirittura le Cheerleaders. E le fiammate scenografiche a bordo campo, sulle inconfondibili note di inizio di Welcome To The Jungle. Sì, tutte cose molto carine: ma la gente vuole il gioco! E i vecchi storcono un po’ il naso, davanti alle carnevalate.
Invece, la partita è scandita all’unisono. Dagli apprezzamenti corali per un placcaggio ben riuscito. Dagli incitamenti durante le mischie. Dal silenzio durante i calci.
E com’è finita, poi?
Il Leinster ha perso. Il Munster ha vinto.
Ma mi rendo conto, alla fine della partita, di aver guardato più fuori dal campo che dentro.
E non dimenticherò mai le parole di quel vecchio irlandese: al contrario di me, è stato tutto il tempo con gli occhi fissi sul campo e la pinta in mano. Non ha detto nulla, per 80 minuti più intervallo. E’ rimasto impassibile, anche in occasione di un bruttissimo fallo su un uomo in salto, placcato illegittimamente, e caduto male sulla sua zona cervicale. Non ha cambiato espressione durante i 10 minuti arrembanti del Munster sulla linea di meta del Leinster, con questi che tentavano di difendere eroicamente, e quelli che spingevano come dei forsennati. Non ha neppure sbirciato durante la difficile decisione dell’arbitro, e le mille inquadrature in diverse direzioni del TMO.
E poi, alla fine, ha detto solo quella frase.
Solo che il vecchio irlandese biascicava così tanto, e aveva un accento tanto sporco, che non si è capito una mazza!