Sacchetti della spesa infilati tra scarpe e calze.
Olio canforato frizionato sulle gambe.
Calzamaglia di lana grezza, con un prurito allucinante sulla pelle dopo i primi 5 minuti.
Passamontagna che lasci fuori solo gli occhi, e anche le palpebre soffrono per il contatto con l’aria pungente.
Erba ghiacciata sui lati del campo, che taglia come tanti piccoli rasoi.
Fango ghiacciato nel mezzo, che scricchiola sotto ai tacchetti.
Teste che fumano come camini, dopo venti minuti di allenamento.
Freddo e caldo, caldo e freddo.
Caldo dell’abbraccio della mischia; freddo dell’estremo che si sfrega le braccia e saltella sul posto, aspettando che qualcuno si ricordi di lui là in fondo.
Non c’è niente di meno attraente di un campo da rugby in inverno, di notte, sotto la galaverna.
Solo il pensiero di cambiarsi in quegli spogliatoi gelati fa passare ogni entusiasmo.
La borsa, poi, nel migliore dei casi è rimasta in macchina tutto il giorno. Mentre le vite scorrevano tranquille, tra un impianto di riscaldamento e l’altro. Quindi, qualsiasi indumento provocherà brividi di freddo e tremori diffusi, a contatto con la pelle.
Non si possono tenere i guanti, perché l’ovale scivola sulla lana e non fa presa.
Quindi, ogni passaggio è bruciante, sulle dita rosse.
Si scavano solchi di screpolature, e pulsare di geloni.
Dopo l’allenamento, infine, la doccia non è mai alla giusta temperatura: o gelata, come brina di campo. O bollente, da togliere la prima pelle.
E ci si guarda con affetto, con tenerezza.
Di chi si capisce.
Perché quali pazzi vorrebbero mai fare allenamento, in serate come queste?
Buon anno, rebbisti.