Il rugby si attacca all’anima.
Dopo aver giocato a rugby, è difficile lasciare il campo.
Alcuni non lo fanno proprio. Ci sono tanti modi, per rimanere di ripiego su un campo da rugby: allenatore, dirigente, arbitro, genitore di figlio che gioca a rugby, giocatore old… O più di una tra queste opzioni, contemporaneamente.
Quasi nessuno diventa Presidente (e non solo per una questione di statistica).
Perché fare il Presidente di una squadra di rugby è praticamente una maledizione.
Soprattutto se la società è rinomata, se ci sono interessi consistenti dietro..
Intendiamoci: il rugby resta uno sport da grezzi. E puoi metterti la cravatta, la giacca, le scarpe strette. Ma dentro rimani, comunque, un quarto di manzo infangato. E fai fatica ad adeguarti alla politica, alla diplomazia, quando fino al giorno prima anche le questioni più complesse le potevi risolvere con un placcaggio, o con una pacca ben assestata.
Una delle ragioni fondamentali del rugby è che si va avanti in ogni caso.
Soprattutto quando si fa fatica a trovare un motivo per lavorare e soffrire: spunta sempre un sostegno, un movente che ti spinge a resistere.
In campo è più semplice: può capitare la situazione in cui si ha bisogno di un compagno, e subito dopo lo stesso compagno avrà bisogno dell’altro. E’ uno scambio continuo e simbiotico. Anche giocando, però, si possono avere momenti di buio, di arresto: come un infortunio, quando dal campo si passa al silenzio, alla solitudine, ai “Chi me lo ha fatto fare?”.
Ma il peggio è fuori dal campo. Ci sono scontri, situazioni, problemi con cui fare i conti (è proprio il caso di dirlo): la coperta corta, il campo che si rovina, i molteplici e delicati rapporti (moltiplicati per il numero delle squadre della società) che ci sono tra giocatori e allenatori/allenatori e dirigenti/dirigenti e sponsor/giocatori e quelli che non c’entrano una mazza.
Come un grande direttore d’orchestra.
Sempre in mezzo a qualche battaglia, ma fondamentalmente solo. Anche se sempre circondato dalla gente.
Perché un Presidente che arriva sul campo può anche sporcarsi di fango, ma non ci ritornerà più col fango fin dentro le orecchie. Il fango che ha è quello rimasto nell’anima, quella maledizione che lo spinge a fare delle cose insensate che nessun altro vorrebbe fare al suo posto, e che contro ogni logica lo spinge a vivere, respirare, pensare rugby, senza però poterlo giocare.
Gliel’ho chiesto, una volta, al Presidente, se sentisse la mancanza del rugby giocato sul campo. E lui ha continuato a guardare per terra, con la sua caratteristica erre moscia: “Tutti i giorni”.
Ciao Almer.