Nella notte tra domenica e lunedì si è disputata gara 5 delle Finals Nba che ha consegnato il titolo ai San Antonio Spurs. L’idea iniziale per questo articolo, era quella di seguire la scia dei pezzi precedenti, descrivendo l’andamento della partita quarto per quarto e provando ad analizzare i temi tattici che avevano fatto pendere l’ago della bilancia da una parte o dall’altra. Mi sono approcciato alla partita in maniera analitica, annotando su un foglio punti, rimbalzi, assist e altre “cose di basket”, consapevole che poi mi sarebbero tornate utili nella stesura di questo breve recap. Già dalle prime righe, però, ho iniziato a rendermi conto che c’era qualcosa che non andava. No, non avevo scritto aberranti castronerie grammaticali o fesserie tecniche, semplicemente mi sono accorto che non stavo centrando il nocciolo della questione. Le “cose di basket” vanno bene quando si parla di basket, ma nella notte di San Antonio c’è stato molto più che una semplice partita, e tutti quelli che sono rimasti svegli fino alle 5.30 possono confermarlo. Per questo motivo, dunque, mi scuso con tutti coloro che avrebbero voluto leggere cosa è successo in campo, perchè questo articolo non sta andando in quella direzione. Vi basti sapere che gli Heat sono partiti fortissimo, grazie a un Lebron in versione messia, ma che già dopo un tempo di gioco la partita era sostanzialmente finita. Era solo questione di tempo. Mi piacerebbe che questo articolo non scadesse nella banale retorica del “hanno vinto i buoni contro i cattivi”, come molte delle testate giornalistiche italiane e non solo hanno fatto pensare. Non sarebbe neanche giusto che questo articolo si trasformasse in un panegirico agli Spurs, alla squadra, alla società e alla loro inoppugnabile cultura di sport. Dove voglio arrivare con questo sproloquio? Voglio solo dire che secondo il sottoscritto (e sottolineo questo passaggio), è “meglio” che abbiano vinto gli Spurs: non per una questione di tifo, non per un odio assurdo e immotivato nei confronti di Miami e neanche per una qualche forma di spirito campanilistico nei confronti di Belinelli (Grande Marco!!!), ma solo perchè ha vinto la squadra migliore e per tutto ciò che questo titolo significa per i suoi giocatori. “Meglio” così. Non me ne vogliano Lebron (che resta, malgrado la sconfitta, nettamente il miglior giocatore al mondo) e Miami, reduci da due titoli consecutivi, ma questo titolo spettava a San Antonio e niente e nessuno avrebbe impedito loro di andarlo a prendere. Ci sono come minimo un miliardo di storie parallele a questa vittoria, che varrebbe la pena di raccontare. Vale la pena raccontare, ad esempio, di come Tim Duncan diventi il secondo giocatore nella storia del basket Nba, a vincere il titolo in tre decadi diverse, conquistando l’anello a quindici anni di distanza dalla prima volta (1999) e di come ottenga questo risultato in quella che potrebbe essere l’ultima partita della sua irripetibile carriera. Vale la pena raccontare la storia di due amici francesi, Parker e Diaw, che si sono conosciuti, imberbi e quindicenni, in un liceo parigino e che dopo 17 anni possono dire di aver conquistato insieme il più importante successo cestistico mondiale. Vale pena di raccontare la storia di Marco Belinelli, primo italiano di sempre a vincere il titolo Nba, dopo aver attraversato una montagna di difficoltà nelle sue prime stagioni oltreoceano, e di come con lavoro duro e dedizione si possa arrivare a traguardi impensabili. Vale la pena raccontare di un nasone argentino, che dopo una finale scorsa decisamente sottotono, ha scelto rinunciare alla sua amatissima nazionale, dedicandosi anima e corpo alla preparazione per questa stagione, dimostrando che, nonostante i 37 anni suonati, di giocatori come lui non ne nascono tanti. Vale infine la pena raccontare di Kawhi Leonard, vincitore dell’MVP nonostante i neanche 23 anni sulla carta di identità e di come anche senza proclami e schiamazzi a gran voce, senza social network, senza esposizione mediatica si possa essere un campione, nel più puro senso del termine. Sapete, venendo dal mondo del calcio (sport che continuo ad adorare) e di conseguenza dal concetto di tifo in mezzo al quale tutti noi siamo nati, ogni tanto è difficile riuscire ad apprezzare totalmente lo sport in quanto tale, le sue emozioni, la sua potenza e tutto l’immaginario che ne segue. L’ Nba, per il sottoscritto, ha rappresentato questa possibilità; distaccarmi dal tifo e vivere lo sport per quello che è, da puro e semplice appassionato. E’ stata una storia bellissima, e sentivo il dovere di raccontarvela. Dopo tutto, la prossima stagione non è poi così lontana.
Una Storia Bellissima
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