E’ sempre più protagonista in casa Modena il tecnico Walter Alfredo Novellino. Un curriculum di tutto rispetto ed un numero importante di promozioni nella massima serie fanno di lui un valore aggiunto per i canarini in questo finale di campionato. Anche il Guerin Sportivo ha deciso di dedicargli un’intervista a tutto campo che qui, di seguito, riportiamo:
Martello. A chiamarlo così erano i fedelissimi del Venezia, nella stagione di Alvaro Recoba e Pippo Maniero. Ottavo posto finale, un calcio fatto di movimenti sincroni e fiammate improvvise. Walter Novellino era “Martello” per via di allenamenti programmati sulla carta in ogni dettaglio e diretti sul campo con una cura e una concentrazione maniacali. Concetti semplici, quelli di Walter, ma non semplicistici, ripetuti come un mantra: 4-4-2 di riferimento, là davanti una punta di peso e una di qualità, in mezzo al campo un regista dai piedi morbidi, in difesa quattro giocatori in linea, sempre molto alti, sempre pronti a fiondarsi in fascia. Una concezione calcistica cui Novellino non ha mai derogato. Sono nate così le quattro promozioni in Serie A: Venezia prima, poi Napoli, Piacenza e Sampdoria in successione. Un decennio di successi, poi un blackout improvviso coinciso con le disavventure di Torino, Reggio Calabria e Livorno. Ma a un passo dall’addio, ecco la chiamata del Modena e la voglia di calcio subito riesplosa insieme con le antiche motivazioni.
Quanto è cambiato, Walter “Martello”, dalle stagioni d’oro della sua carriera? È cambiato lui, certo, ma è cambiato anche il calcio. Sia nella struttura tecnicotattica che nell’organizzazione aziendale. «Per diversi anni» commenta «sono stato tra gli allenatori che andavano di moda. Facevo tendenza. Un po’ perché volevo sempre vincere il campionato e un po’ perché ero in linea con le esigenze delle società. Erano anni in cui l’allenatore costruiva la squadra insieme col Direttore sportivo e interveniva anche nelle scelte dei giocatori».
Una sinergia di cui si è persa ormai traccia. Il ruolo dell’allenatore, oggi, risulta ridimensionato.
«La differenza, rispetto a dieci anni fa, è sensibile. Confesso che ho fatto fatica ad adeguarmi, un po’ anche per colpa mia. Sono un uomo di campo: dovendo scegliere, ho preferito la parte attiva del calcio. In questo senso credo di avere comunque sempre inciso dal punto di vista aziendale lanciando molti giovani. La considero una mia vittoria personale, ne vado orgoglioso».
Lei ha fatto per anni coppia fissa con Beppe Marotta. La sinergia, nel vostro caso, ha funzionato a meraviglia.
«Eravamo entrambi giovani e pieni di energia. Si lavorava sulla base di una precisa progettualità, anche perché avevamo alle spalle società di grande livello. Marotta è stato il mio mentore negli anni ruggenti, ma ho imparato molte cose anche da Nardino Previdi e da Roberto Ranzani».
È molto cambiata, negli anni, anche la struttura tecnico-tattica della Serie B.
«Se lo valutiamo dal punto di vista tecnico, il campionato è cambiato in peggio. Oggi si corre di più, ci sono tanti giovani, ma c’è meno qualità. In passato, se volevi vincere, dovevi puntare su gente esperta, giocatori di 26-27 anni già pronti per la Serie A».
Lei si è sempre portato dietro un gruppetto di fedelissimi. Un’arma a doppio taglio, non crede?
«Le mie sono sempre state scelte meditate, non ho mai avuto motivo di pentirmene. I nomi che le faccio parlano da soli: Iachini, Volpi, Schwoch, Luppi, Zanchi, lo stesso Bazzani. Ma erano tempi, come le dicevo, in cui il parere di un allenatore aveva un peso ben preciso. Certi giocatori rappresentavano una garanzia sia dal punto di vista morale che agonistico. Già in partenza alzavano il tasso di personalità di una squadra».